di Giorgio Meletti | 29 maggio 2012Alla fine di luglio del 1976 Carlo De Benedetti annunciò a Cesare Romiti
che se ne sarebbe andato dalla Fiat, dopo soli tre mesi da
amministratore delegato. Il drammatico colloquio avvenne “mentre
andavamo là in macchina”, rievoca Romiti nelle sue memorie in forma di
intervista al giornalista Paolo Madron, “Storia segreta del capitalismo italiano”,
appena uscito per Longanesi e presentato ieri a Roma da un drappello di
amici cari del manager (Stefano Folli, Lucia Annunziata, Pierluigi
Ciocca e Paolo Savona) insieme a un’imbarazzata Susanna Camusso. La versione di Pansa
Nel 1988, consegnando i suoi ricordi a un altro giornalista allora in gran voga, Giampaolo Pansa (“Questi anni alla Fiat”,
Rizzoli), Romiti ricordava che erano già arrivati agli uffici Iveco per
una riunione, e il dialogo si svolse “mentre passeggiavamo nei
corridoi”. Dettagli? Sicuramente. Ma non solo. Nell’88 Pansa chiese:
come vi siete lasciati? “Non bene, e me ne dispiace.
Lui vedeva in me
l’uomo che l’aveva ostacolato nel suo proposito di essere l’unico a
comandare in Fiat. Così, ci fu anche del malanimo, dell’amarezza un po’
acida”. Nei 24 anni trascorsi da allora i ricordi del manager tutto d’un
pezzo si sono addolciti. Adesso De Benedetti è quello che salutando gli
Agnelli pone come condizione, di non si capisce bene che cosa, che
Romiti prenda il suo posto alla presidenza della Gilardini (ex azienda
di famiglia dell’Ingegnere): “Mi disse che si fidava solo di me”.
L’ottantanovenne
Romiti scrive che con questo libro vorrebbe contribuire alla formazione
di una nuova classe dirigente di giovani, aiutandoli a riflettere.
Sicuramente un insegnamento emerge con chiarezza. Quando si scrive il
secondo libro di memorie conviene andarsi a rileggere il primo, per
evitare curiose contraddizioni.
Corruzione a sua insaputa.
E dunque il manager romano racconta a Madron che quando arrivò alla Fiat (1974) scoprì che c’era la brutta abitudine di passare soldi ai partiti
e lui la interruppe. Subito dopo ammette che la Impresit, controllata
Fiat nel campo delle costruzioni, “come impresa assegnataria di appalti
pubblici non era immune dai ricatti della politica”. Ma a sua insaputa.
“L’inchiesta di Mani pulite”, racconta due pagine dopo, “mi diede il
destro per scoprire i fatti che venivano imputati a Impresit”. E molte
teste rotolarono, beccate dai magistrati in prima istanza e per
soprammercato accusate da Romiti di aver fatto tutto di testa loro.
Nel
1988 Romiti aveva un’idea diversa. “Un’azienda come la Fiat non fa il
mercato delle vacche”. E raccontava a Pansa l’idillio dell’azienda
onesta a proposito del nuovo stadio delle Alpi in
costruzione per i mondiali del ‘90: “La Impresit aveva tutto l’interesse
a farlo e ha presentato la sua offerta regolare. Poi sono esplose le
solite battaglie parapolitiche. Allora ho detto ai miei collaboratori,
lasciandoli con la bocca amara: stiamo fuori da questa storia”. Ma la
bocca amara doveva averla Romiti stesso, se è vero che subito dopo
provvedette a comprarsi direttamente la Cogefar, che aveva vinto la gara
per lo stadio di Torino nei modi evidentemente ripugnanti evitati da
Romiti.
Il Corriere e i direttori Fiat.
Ed ecco il capitolo meraviglioso del Corriere della Sera, su cui finalmente Romiti ci fa sapere che Gianni Agnelli
comandava e sceglieva i direttori. I maligni lo avevano sempre
sospettato, così come lo sapevano per cognizione diretta i direttori che
si sono succeduti nel quindicennio dello strapotere dell’Avvocato su
via Solferino. “Era impossibile nominare il direttore del Corriere senza
il suo avallo”, riferisce il Romiti edizione Longanesi 2012. “Non sono
d’accordo con lei quando afferma che la Fiat controlla la Rizzoli”,
diceva invece nell’edizione Rizzoli ‘88, rivolgendosi con severità a
Pansa. La memoria di Romiti è curiosamente selettiva. Parla di Enrico
Berlinguer come se fosse l’unico vivente ad averlo conosciuto (“Era
piccolino, pallido, smunto”). Riferisce un racconto autocelebrativo di
Massimo D’Alema del tutto inverosimile, con il pur superbo leader post
comunista intento a dipingersi come uno dei dieci big del Pci prelevati a
casa e portati a dormire altrove per paura del colpo di Stato (“Allora
mi accorsi di essere diventato importante”). Quando queste cose
accadevano D’Alema aveva sì e no venticinque anni, a meno che Romiti non
ci stia rivelando che il Pci temesse colpi di Stato durante il governo
Craxi negli anni ‘80.
Liberale, Repubblicano, Dc...
E
del resto Romiti ci restituisce un passato in cui il capitalismo andava
fortissimo gestito da lui, Cuccia, Agnelli e pochi altri eroi, poi,
appena loro sono usciti di scena, chissà come, è precipitato di colpo in
una crisi drammatica. Per colpa di chi? Dei successori, evidentemente
in grado di distruggere in mesi quello che i nostri eroi avevano
edificato in decenni. Anche le idee politiche di Romiti sono soggette
nel tempo agli scherzi della memoria. Adesso giura di aver votato “per
moltissimi anni il Partito Repubblicano”, nella Prima repubblica,
“successivamente per altri partiti”. Nell’88, quando il potere della Dc
di Ciriaco De Mita era al culmine, i ricordi di Romiti
erano più prudenti: “Ho cominciato votando liberale, una volta ho votato
per la Dc, da un po’ di anni voto repubblicano. Come vede fluttuo”.
Fluttuava, poi se n’è dimenticato.
Il Fatto Quotidiano, 29 Maggio 2012
Nessun commento:
Posta un commento