Questa intervista è uscita sulla “Frankfurter
Allgemeine Seitung” del 24 maggio 2013 ed è stata ripresa in lingua
inglese il 4 giugno da “Verso”. Ringraziamo l’autore per averci reso
possibile di proporla nella stesura originale.Lo scorso
marzo lei ha proposto l’idea di un “impero latino” contro il dominio
tedesco in Europa. Il suo intervento è stato tradotto in diverse lingue e
discusso con molta passione. Aveva previsto tutta questa eco?Vorrei
innanzitutto precisare che il modo in cui “Die Zeit” ha presentato il
mio articolo su “Libération”, non ne rispecchia né lo spirito né la
lettera. A cominciare dal titolo ( Das lateinische Reich soll einen Gegenangriff starten)
che ovviamente, come un giornalista dovrebbe sapere, non è mio, ma
della redazione. E come potrei voler contrapporre la cultura latina a
quella tedesca, quando ogni europeo intelligente sa che la cultura
italiana del Rinascimento o quella greca classica appartengono di pieno
diritto anche alla cultura tedesca, che le ha pensate e riscoperte?
Questo è l’Europa, questa assoluta specificità che scavalca tuttavia
ogni volta i confini nazionali e culturali. L’obiettivo delle mie
critiche non era la Germania, ma il modo in cui l’Unione Europea è stata
concepita, su ragioni unicamente economiche che ignorano non solo
quelle spirituali e culturali, ma anche quelle politiche e giuridiche.
Se vi era una critica per la Germania, ciò era solo perché la Germania,
che si trova in qualche modo in una posizione di leadership, malgrado la
sua straordinaria tradizione filosofica sembra incapace di pensare una
Europa che non sia quella della moneta e dell’economia.
Dunque non è una questione di “impero latino” dominante… Lei
pensa che l’Unione Europea abbia negato le sue radici politiche e
giuridiche?Quando si parla oggi di Europa, il grande rimosso è
innanzitutto la stessa realtà politica e giuridica dell’Europa. Che si
tratti di una vera e propria rimozione, risulta dal fatto che si evita
in tutti i modi di portare alla coscienza una verità tanto imbarazzante
quanto evidente: e cioè che la cosiddetta costituzione europea è
illegittima. Il testo che va sotto questo nome o non è stato sottoposto
al voto popolare o quando ciò è avvenuto, come in Francia e in Olanda
nel 2005, esso è stato clamorosamente rifiutato. Dal punto di vista
giuridico, questo documento non è una costituzione, ma esattamente il
contrario di una costituzione, cioè un accordo tra governi, la cui
consistenza riguarda il diritto internazionale e non quello
costituzionale. Ancora di recente, un giurista tedesco di cui nessuno
può mettere in dubbio la competenza, Dieter Grimm, ha ricordato che alla
costituzione europea manca il fondamentale elemento democratico, perché
essa non è in alcun modo il frutto dell’autodeterminazione dei
cittadini dell’Unione. La tacita sospensione, dopo i risultati negativi
dei referendum in Francia e in Olanda, delle previste ratifiche popolari
del trattato che i capi dei governi avevano firmato a Roma ne è una
prova evidente. Il giornalista di “Die Zeit” che mi rimproverava di non
sapere nulla di democrazia farebbe bene a riflettere sul fatto che
l’Unione europea è tecnicamente un trattato fra Stati che viene fatto
passare per una costituzione democratica. Per questo, l’idea di un
potere costituente europeo è uno spettro che nessuno osa oggi evocare.
Eppure solo un tale potere costituente potrebbe restituire legittimità e
realtà alle istituzioni europee.
Questo significa che lei vede nell’Unione Europea un’entità illegale?
I
dati giuridici non sono mai puramente formali, ma rispecchiano una
realtà. È allora perfettamente comprensibile che una entità politica
senza una vera costituzione non possa esprimere una politica propria, ma
ogni stato segua di volta in volta interessi contrastanti, anche, come
mi sembra oggi evidente, nella sfera economica. La sola parvenza di
unità si raggiunge quando l’Europa agisce come vassallo degli Stati
Uniti, partecipando a guerre che non corrispondono in alcun modo a
interessi comuni e ancor meno alla volontà popolare. Del resto alcuni
degli stati firmatari del trattato, come l’Italia, per il numero di basi
militari che ospitano, sono tecnicamente dei protettorati e non degli
stati sovrani. In politica estera, esiste, a volte, un occidente
atlantico, ma non certo l’Europa. Come non esiste sul piano
costituzionale, l’Europa non esiste sul piano politico e militare.
È
in questa prospettiva che nel mio articolo evocavo in modo forse
provocatorio il progetto di Kojève di un Impero latino. Come il Medio
Evo aveva capito, una unità formata da società politiche dev’essere
qualcosa di più o di diverso di una società politica. Il Medio Evo ne
cercava il criterio nella cristianità. Io credo invece che questo
criterio di legittimazione vada cercato nel particolare significato che
hanno per l’Europa il suo passato e le sue tradizioni culturali. Se
guardiamo oggi all’Europa e ci chiediamo se la parola Europa ha per noi
ancora un senso, allora questo non può essere né soltanto politico né
soltanto economico o religioso, ma consiste forse in questo, che l’uomo
europeo – a differenza degli asiatici e degli americani, per i quali la
storia e il passato hanno un significato completamento diverso – può
accedere alla sua verità solo attraverso un confronto col suo passato,
solo facendo i conti con la propria storia. Il passato non è, cioè, per
lui soltanto un patrimonio di beni e di tradizioni, ma anche e
innanzitutto una componente antropologica essenziale, che fa sì che egli
possa accedere al presente solo archeologicamente, solo guardando a ciò
che di volta in volta è stato. Questo significa che il passato è per
gli europei innanzitutto una forma di vita. Di qui il rapporto speciale
che l’Europa ha con le sue città, con le sue opere d’arte, col suo
paesaggio: non si tratta di conservare dei beni più o meno preziosi, ma
comunque esteriori e disponibili: in questione è la realtà stessa
dell’Europa, la sua indisponibile sopravvivenza. Per questo insistevo
nel mio articolo sulla necessità di preservare la diversità delle forme
di vita. Distruggendo, ieri, le città tedesche, gli americani sapevano
di demolire in qualche modo l’identità stessa della Germania; per
questo, oggi, distruggendo col cemento, le autostrade e l’Alta Velocità
il paesaggio italiano, gli speculatori non ci privano soltanto di un
bene, ma distruggono la nostra stessa realtà storica.
Forse
da nessuna parte come in Europa una tale diversità di culture e di
forme di vita sembra cospirare almeno in alcuni momenti verso un ideale
comune. Un tempo questo ideale si è espresso politicamente nell’idea
romana e poi germanica di un Impero, che lasciava intatte le specificità
dei popoli. Non è facile dire oggi che cosa potrebbe prenderne il
posto. Ma è certo che una realtà politica dell’Europa si potrà costruire
soltanto a partire da questa consapevolezza.
Allora l’Unione dovrebbe valorizzare le differenze al posto di armonizzarle?
Per
questo la crisi che l’Europa sta attraversando mi sembra così
minacciosa. Mentre sarebbe urgente riflettere al difficile compito di
costruire una unità preservando le diversità, vediamo al contrario che
in tutti i paesi europei è in corso al contrario un vero e proprio
smantellamento delle scuole e delle università, cioè delle istituzioni
che, trasmettendo la cultura, dovrebbero vegliare al rapporto vivente
fra il passato e il presente. A questo smantellamento, corrisponde una
crescente museificazione del passato, a cominciare dalle stesse città,
trasformate in centri storici, i cui abitanti sono trasformati in
qualche modo in turisti nella propria stessa cultura.
Qui
si vede con chiarezza che la crisi non è semplicemente un problema
economico, ma qualcosa che riguarda la realtà stessa dell’Europa, cioè
il suo rapporto col proprio passato. Il solo luogo in cui il passato può
vivere è, infatti, il presente e se il presente non sente più il
proprio passato come vivo, le università e i musei diventano luoghi
problematici. È evidente che in Europa agiscono oggi delle forze che
cercano di cambiarne l’identità, manipolando e alterando il rapporto
vitale che essa ancora intrattiene col suo passato e cercando di
livellare e distruggere le diversità. L’Europa può essere il nostro
futuro, solo se ci rendiamo conto che essa è innanzitutto il nostro
passato. Ed è proprio questo passato che si cerca oggi di liquidare.
La crisi permanente è l’espressione di un sistema di governo che si applica alle nostre vite quotidiane?
Il
termine “crisi” è nella politica moderna una parola d’ordine, che in
ogni ambito della vita sociale coincide oggi con lo stato normale. Nel
termine “crisi” convergono due eredità semantiche: quella medica di
momento decisivo in una malattia, e quello teologica di Giudizio Finale.
Entrambi questi significati hanno subito però una trasformazione che li
priva del loro riferimento temporale. Krisis significava nella medicina
antica il giudizio con cui il medico, in un particolare momento (che
Galeno chiamava “giorno decisivo”), riconosce se il malato sopravvivrà o
morirà. Nel concetto moderno di crisi, invece, in cui essa diventa una
condizione permanente, la connessione con un istante decisivo viene a
mancare. La crisi viene separata dal “giorno decisivo” e prolungata
indefinitamente nel tempo.
Lo stesso avviene
per il giudizio finale della tradizione teologica. Qui il giudizio era
inseparabile dalla visione compiuta della cosa giudicata. Nella “crisi”
secolarizzata, il giudizio viene invece separato dalla sua connessione
essenziale alla fine e fatto coincidere con il decorso cronologico, in
modo che la cosa non può mai essere pensata nella sua finalità propria.
Conseguentemente, la facoltà di decidere una volta per tutte viene meno e
la decisione incessante non decide propriamente di nulla.
Oggi
la crisi è uno strumento di governo che serve a legittimare delle
decisioni politiche ed economiche che di fatto espropriano i cittadini
di ogni vera possibilità di decidere. Questo è evidente in Italia dove,
in nome della crisi e dell’urgenza, è stato formato un governo che,
portando al potere il partito di Berlusconi, contraddice clamorosamente
la volontà espressa dall’elettorato. Quel governo è illegittimo, come
illegittima è la costituzione europea. Occorre che i cittadini europei
si rendano conto che la crisi permanente, esattamente come lo stato di
eccezione, è incompatibile con la democrazia. Bisogna restituire alla
parola “crisi” il suo significato originale di momento del giudizio e
della scelta, che, per l’Europa, non può essere ulteriormente rimandato.
Molti anni fa, un filosofo che era anche un alto funzionario
dell’Europa nascente, Alexandre Kojève, sosteneva che l’homo sapiens
era giunto alla fine della sua storia e non aveva ormai davanti a sé
che due possibilità: l’accesso a un’animalità poststorica (incarnato
dall’american way of life) o lo snobismo (incarnato dai
giapponesi, che continuavano a celebrare le loro cerimonie del tè,
svuotate, però, da ogni significato storico). Tra un’America
integralmente rianimalizzata e un Giappone che si mantiene umano solo a
patto di rinunciare a ogni contenuto storico, l’Europa potrebbe offrire
l’alternativa di una cultura che resta umana e vitale, perché è capace
di confrontarsi con la sua stessa storia nella sua totalità e di
attingere da questo confronto una nuova vita.
Da
più di due secoli tutte le energie degli esseri umani si sono
concentrate sull’economia. Molti segni lasciano capire che è venuto
forse il momento per l’homo sapiens di ripensare l’attività
umana al di là di questa unica dimensione. L’Europa può ancora fornire
in questa prospettiva un contributo decisivo.
Giorgio Agamben
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