Fao: buttiamo 750 miliardi di dollari l'anno
Un rapporto disegna scenari inquietanti:
l'equivalente dei Pil di Turchia e Svizzera finisce nella spazzatura e
produce 3,3 miliardi di tonnellate di Co2.
Primato negativo all'Asia
industrializzata e sudorientale. L'agenzia Onu ha compilato una serie di
consigli per migliorare l'atteggiamento dei consumatori e dei
produttoriA gravare sulle spese è in larga parte lo spreco di verdure (23%), seguito da carne (21%), frutta (19%) e cereali (18%). La dissipazione della carne pesa soprattutto a causa dei suoi costi di produzione: ne viene buttato il 4%, ma l'incidenza economica è cinque volte maggiore. Mentre il discorso è inverso per i cereali: la quantità "buttata" è maggiore del valore economico. C'è invece un certo equilibrio per frutta e verdura. Il volume globale dello spreco è stimato in 1,6 miliardi di tonnellate di "prodotti primari" e in 1,3 miliardi di tonnellate di cibo commestibile.
Le regioni in cui il fenomeno è più marcato sono l'Asia industrializzata e il Sud Est asiatico che buttano circa il 28 e il 22% di cibo prodotto, al terzo posto c'è l'Europa con circa il 15%, seguita da America Latina e Africa subsahariana. Le regioni più parsimoniose sono America del Nord, Oceania, Nord Africa e Asia centrale.
Ma i costi non sono solo economici. Anche l'ambiente risente dell'enorme mole di cibo che viene gettato nell'immondizia: stando ai dati del rapporto, ogni anno circa 3,3 miliardi di tonnellate di Co2 avvelenano l'atmosfera, una quantità che colloca lo stato "del cibo disperso" al terzo posto dopo le emissioni di gas serra prodotte da Usa e Cina.
Lo studio inoltre valuta anche le conseguenze che lo spreco alimentare ha su acqua e biodiversità. Per dare un'idea dell'enorme inquinamento, basti pensare che per coltivare, stoccare e portare sulle tavole le tonnellate di cibo che non viene mangiato, si sfrutta una quantità d'acqua pari al flusso che il fiume russo Volga ha in un anno.
Ma perché questo spreco? Secondo gli analisti si tratta di un insieme di cause. Nei paesi più ricchi, da un lato c'è un errato comportamento dei consumatori, dall'altro la mancanza di comunicazione nella catena di approvvigionamento. I compratori non pianificano correttamente la spesa, mentre i rivenditori spesso mandano indietro del cibo perfettamente commestibile per ragioni di qualità o estetica.
Mentre nei paesi in via di sviluppo la maggior parte dello spreco avviene nella fase successiva al raccolto, al primo step della catena di fornitura, a causa di limiti strutturali e tecnologici nello stoccaggio e inefficenza nel trasporto, spesso combinati con condizioni climatiche favorevoli al deterioramento degli alimenti.
"Tutti, agricoltori e pescatori, trasformatori alimentari e supermercati, governi locali e nazionali, singoli consumatori - afferma José Graziano da Silva, direttore generale della Fao - devono apportare modifiche in ogni anello della catena alimentare umana in primis per evitare lo spreco di cibo e per il riutilizzo o il riciclo".
Per sensibilizzare la popolazione mondiale al risparmio del cibo la Fao ha redatto un manuale di consigli (Toolkit). Il primo è ovviamente non buttare il cibo. Inoltre la Fao suggerisce di cercare di "riusare il cibo all'interno della catena umana alimentare", questo si può fare trovando mercati secondari o donando gli alimenti in eccesso a mense o a bisognosi. E se il cibo non dovesse più essere buono per il consumo umano, è possibile destinarlo al bestiame.
"Non possiamo permettere - conclude il direttore della Fao - che un terzo di tutto il cibo che produciamo finisca nei rifiuti o vada perso a causa di pratiche inadeguate, quando 870 milioni di persone soffrono la fame ogni giorno".
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Il Fatto Quotidiano
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 11 settembre 2013
Il volume complessivo alimenti sprecati ammonta a 1,3 miliardi di tonnellate. Lo rivela uno studio della Fao dal titolo “Rapporto sulle conseguenze ambientali dello spreco di prodotti alimentari”, presentato dal direttore generale Josè Graziano de Silva.
Gettare il cibo ha risvolti non solo economici, ma anche ambientali. Per produrre generi alimentari destinati a finire nella spazzatura si emettono 3,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, più del doppio delle emissioni Co2 causate dai trasporti su strada degli Stati Uniti. A risentire negativamente dello spreco di cibo sono anche il suolo, l’acqua e la biodiversità. L’agricoltura intensiva, per esempio, diminuisce la fertilità dei terreni e richiede, a lungo andare, il ricorso a fertilizzanti chimici, che provocano inquinamento e riducono l’estensione dei terreni coltivabili. Ogni anno, inoltre, 1,4 milioni di ettari di suolo sono impiegati per produrre colture che non finiranno mai in tavola: si tratta di una superficie pari all’intero territorio della Russia e al 28% del suolo agricolo mondiale. Il discorso non cambia per l’acqua, della quale si sprecano 250 chilometri cubi all’anno, una quantità sufficiente per riempire l’intero lago di Ginevra. Come se non bastasse, sono 9,7 milioni gli ettari di bosco distrutti tutti gli anni per produrre generi alimentari che in buona parte andranno sprecati: si tratta di un dato che influisce in modo devastante sulla biodiversità del nostro pianeta. Neanche i pesci sono esenti dalla follia dello spreco: il 70% degli esemplari raccolti con la tecnica della pesca a strascico sono poi ributtati in mare.
A chiudere un quadro tutt’altro che confortante, l’impatto dell’aumento della popolazione mondiale e della sua domanda di cibo, che richiederanno un incremento della produzione alimentare pari al 60% entro il 2050. Uno sforzo difficilmente sostenibile dall’industria alimentare mondiale, che potrebbe ridursi grazie a un’ottimizzazione della produzione e dei consumi. La Fao ha rivolto un appello alle imprese nel settore alimentare affinché regalino il cibo invendibile, magari perché scaduto, mettano sul mercato gli articoli imperfetti a minor prezzo e consentano ai consumatori di comprare solo la quantità desiderata.
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Il Fatto Quotidiano
Decrescita felice, parlare di spreco di cibo per capirla
Con tutto il cibo che sprechiamo sul Pianeta potremmo sfamare oltre 2 miliardi e 300 milioni di persone ai ritmi di consumo europei. Senza considerare che non finisce in questo conteggio il cibo mangiato in eccesso da almeno 1 miliardo e 600 milioni di persone obese o sovrappeso: anch’esso, però, è di fatto cibo che sprechiamo.
Quando sprechiamo cibo, stiamo però sprecando anche (e soprattutto) molto altro:
- il denaro che abbiamo speso per acquistare quel cibo
- il tempo di chi ha lavorato per produrlo e il tempo nostro dedicato a lavorare per guadagnare i soldi necessari a comprarlo
- la terra coltivata per produrre quelle derrate alimentari
- l’acqua impiegata nella coltivazione e nei sistemi di produzione (non dimentichiamo che il 70% dell’acqua dolce disponibile sul pianeta è utilizzato in agricoltura)
- l’energia necessaria per produrre, trasformare, conservare, distribuire quel cibo
e la lista potrebbe continuare ancora.
Consideriamo poi che i nostri ragionamenti andrebbero estesi anche al packaging, che è tanto maggiore quanto più sono lunghe, destagionalizzate, delocalizzate, automatizzate, uniformate le filiere. Più il cibo è conforme al sistema alimentare globale, più necessita di packaging: altra energia, acqua, denaro, tempo sprecati (o perlomeno male utilizzati) in quantità enormi.
Tutto ciò, oltretutto, impatta in maniera rilevante sull’ambiente.
Pensare a un diverso sistema alimentare, che si impone di ridurre gli sprechi a tutti i livelli della filiera, che li considera un errore e non un pezzo strategico del sistema stesso, significa sostanzialmente ragionare nell’ottica della decrescita felice.
Non si tratta di pauperismo, al contrario: partendo da casa nostra, sprecare meno significa – a parità di budget – poter spendere meglio i nostri soldi e quindi mangiare meglio.
Occorre però che andiamo oltre il nostro frigorifero, in questa riflessione, e non ci fissiamo solo su ciò che buttiamo via a casa (che, abbiamo già detto, è una parte minore di tutto lo spreco): i nostri acquisti, in generale, finanziano un sistema di produzione piuttosto che un altro. Se comperiamo cibi “altamente vocati allo spreco”, siamo complici, anche se non buttiamo mai nulla nel bidone della spazzatura. Mangiare prodotti destagionalizzati, cibi precotti, alimenti che arrivano da molto lontano quando potremmo trovarne di analoghi provenienti da luoghi molto più prossimi, vuol dire sostenere il sistema degli sprechi. Così come consumare molta carne, mangiare sempre i soliti pesci, comprare senza informarsi.
Esiste invece un modo relativamente semplice ma estremamente piacevole di diventare sostenitori (più o meno consapevoli) della decrescita felice in cucina. Che di fatto è l’essenza del praticare lo Slow Food. Infatti è, prima di tutto, una questione di tempo (slow contro fast), che dobbiamo liberare dalle moderne forme di schiavitù che ci impediscono sempre di avere il tempo utile a fare le cose che ci fanno stare bene. Come andare al mercato, cucinare per noi stessi e le persone che amiamo, gustare in compagnia il nostro pasto.
Non dobbiamo arrenderci, se da soli non riusciamo a trovare la via d’uscita, cerchiamola assieme ad altri. Almeno proviamoci. Mangiare male mette di cattivo umore, fa male alla salute, produce danni all’ambiente e genera ingiustizie. E alla fine fa anche male al nostro portafogli, cosicché tutto quel lavoro per cui ci siamo dannati diventa denaro che spendiamo male perché non abbiamo il tempo di spenderlo meglio.
Lo Slow Food Day 2013, sabato 25 maggio, in 300 luoghi d’Italia cercherà di mettere assieme quante più persone possibili, di diversi mestieri e diverse esperienze di vita. Proveremo a condividere le buone idee e a fare tesoro di piccole o grandi storie.
Da qualche parte bisogna pur cominciare…
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L’assurdo spreco del cibo
È stimato che circa 1/3 del cibo prodotto per consumo umano sia sprecato dai rivenditori e compratori, o vada perduto lungo i processi produttivi: circa 1,3 miliardi di tonnellate.
670 milioni di tonnellate nei paesi industrializzati, soprattutto per spreco dei rivenditori e consumatori.
630 milioni di tonnellate nei paesi in via di sviluppo, soprattutto per perdite dopo il raccolto e nella lavorazione.
Comparando gli sprechi: annualmente i consumatori dei paesi ricchi sprecano quasi la stessa quantità di cibo dell’intera produzione alimentare netta dell’Africa sub-sahariana.
Frutta e verdura, radici e tuberi sono gli alimenti che vengono sprecati maggiormente.
La produzione alimentare totale pro capite è circa di 900 kg all’anno nei paesi ricchi e 460 kg all’anno nei paesi più poveri. In Europa e in Nord America lo spreco pro capite da parte del consumatore è calcolato intorno ai 95-115 kg all’anno, mentre in Africa sub-sahariana e nel sudest asiatico ammonta a soli 6-11 kg l’anno.
Quanto alle perdite, il rapporto osserva che esse divengono perdite di reddito per i piccoli contadini. Quindi prezzi più alti per i consumatori poveri. “La riduzione delle perdite potrebbe dunque avere un effetto immediato e significativo sulle loro condizioni di vita e sulla sicurezza alimentare dei paesi più poveri”.
In Italia, la Coldiretti stima che annualmente si spreca cibo per circa 37 miliardi di euro, sufficienti a nutrire 44 milioni di persone. Circa il 3% del Prodotto interno lordo finirebbe nella spazzatura.
Il Rapporto Fao esamina alcune delle cause, e propone cambiamenti quale “vendere i prodotti della terra direttamente senza dover conformarsi alle norme qualitative dei supermercati… tramite negozi e mercati gestiti dai produttori.” Cambiamenti anche dell’atteggiamento di chi compra: “I consumatori dei paesi ricchi sono in genere incoraggiati a comprare più cibo di quello di cui hanno in realtà bisogno. Ne è un esempio il classico compra tre e paghi due proposto in molte promozioni, come pure le porzioni eccessive dei pasti pronti prodotti dall’industria alimentare. Ci sono poi i buffet a prezzo fisso offerti da molti ristoranti che spingono il consumatore a riempire il proprio piatto oltre misura”.
A conclusione e commento, riporto quanto scritto sulla rivista Cosmopolis da Andrea Segrè, preside della Facoltà di Agraria all’Università di Bologna: “la FAO stima che la produzione agricola mondiale potrebbe nutrire abbondantemente 12 miliardi di esseri umani, cioè il doppio di quelli attualmente presenti sul pianeta… Com’è possibile, allora, che nonostante summit, dichiarazioni e obiettivi sbandierati il numero di affamati non diminuisca, anzi aumenti?… Uno studioso inglese, Tristram Stuart che, rielaborando i bilanci alimentari della FAO, ha calcolato un livello di “surplus superfluo” che sarebbe 22 volte superiore a quello necessario per alleviare la fame delle popolazioni malnutrite del pianeta o basterebbe per alimentare 3 miliardi di individui… La metà delle dotazioni delle agenzie internazionali specializzate in campo agroalimentare – FAO, PAM e IFAD ad esempio – serve per mantenere se stesse, cioè le loro strutture pesanti e appunto costose. Tra stipendi, benefit, trasporti e spese generali si bruciano miliardi di dollari: uno scandalo che, finiti i controvertici mediatici di protesta da parte delle Organizzazioni non governative, passa ben presto nel dimenticatoio. Tirando le somme e moltiplicandole per enne (il numero delle agenzie delle Nazioni Unite) si capisce poi chi mangia sulla fame”.
Segnalo l’iniziativa Last Minute Market di Segrè; oltre al libro che ha scritto assieme a Luca Falasconi: “Il Libro Nero dello spreco in Italia: il cibo”, Edizioni Ambiente.
Altri suggerimenti su www.nonsprecare.it
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Te la do io l’Onu/17 – Ma la Fao a che serve? (Capitolo 2)
Grazie anche ai commenti ed alle domande dei miei lettori, ho dunque preparato un questionario e l’ho inviato al Dottor Graziano Da Silva, il quale tuttavia, alla fine, tramite l’Ufficio stampa della Fao, mi comunicava che i suoi impegni gli impedivano di dare seguito all’intervista, ma che avrei comunque ricevuto le informazioni richieste attraverso i funzionari dello stesso Ufficio stampa. Così è stato, e malgrado una certa delusione per la mancata intervista, il fatto che la Fao non si tiri (completamente) indietro mi sembra comunque un passo incoraggiante sulla via della trasparenza e di una migliore informazione dei cittadini, con le tasse dei quali funzionano tanto la Fao che il sistema Onu nel suo insieme.
Siamo così riusciti a sapere un certo numero di cose: al di là delle generiche informazioni sul proprio mandato e sulle modalità attraverso le quali opera (non ho spazio per affrontarle nel blog quindi vi rinvio al website, come d’altra parte ha fatto la Fao stessa con me), venendo ai risultati, la Fao ci informa che 38 paesi (di cui 11 africani) avrebbero realizzato l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio di ridurre della metà, tra il 1990 e il 2015, la percentuale di popolazione che soffre la fame.
Come ciò sia stato calcolato, in paesi in cui moltissime persone non sono nemmeno iscritte all’anagrafe, come la mia esperienza africana mi ha insegnato, e quale sia il merito diretto della Fao in tutto ciò, non mi è stato chiarito. Né mi è stato chiaramente spiegato come farà concretamente la Fao a mettere fine alla fame negli altri 44 paesi dell’Africa entro il 2025 (tra dodici anni, nel mezzo dell’attuale crisi economica) se, negli ultimi 23 anni, solo in undici di essi i risultati sarebbero stati probanti… tanto più che poi, lo stesso Direttore Generale della FAO, José Graziano Da Silva, ha dichiarato nel giugno scorso, alla riunione dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Africana, che “l’Africa è la sola regione nel mondo in cui il numero totale delle persone affamate è aumentato dal 1990”; e che quindi a quanto pare la situazione della fame in Africa non sta migliorando, bensì peggiorando.
La Fao ci informa comunque che, al di là della sede romana, essa è presente in più di 130 paesi, e dà lavoro a circa 10.800 persone nel mondo intero, delle quali il 38,8% sono donne: nel dettaglio, sono circa 3.600 i dipendenti Fao veri e propri (1.900 internazionali e 1.700 assunti localmente) e 7.200 sono consulenti, lavoratori occasionali od altro. 3.100 di queste persone lavorano a Roma, e le altre in altre sedi; tra esse, gli italiani sono 1.100, dei quali circa 100 lavorano in una sede diversa da Roma. Trovate poi informazioni sul trattamento dei funzionari FAO (stipendi e benefits) a questa pagina.
La Fao ci fa inoltre sapere che il suo bilancio per il 2014-2015 ammonta ad un miliardo e 28 milioni di dollari (con un aumento del 2,2% rispetto al biennio in corso). Contribuendo 46,7 milioni (ovvero il 4,5% del totale), l’Italia passerà nel prossimo biennio dal sesto al settimo posto tra i maggiori finanziatori della Fao, dietro ad Usa, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito e Cina. La Fao non ci dice quanti soldi sia costata ai contribuenti internazionali dal momento della sua fondazione (nel 1945) ad oggi, ma ci conferma che l’Italia è tradizionalmente uno dei suoi donatori più generosi, e che da solo, dal 1982 ad oggi, il nostro paese, oltre al pagamento della quota obbligatoria del programma regolare dell’organizzazione, ha donato alla Fao, sotto forma di contributi volontari, almeno altri 740 milioni di dollari che hanno permesso il finanziamento di centinaia di progetti nel quadro del cosiddetto Programma Cooperativo (finanziato da contributi volontari degli Stati, e che si somma al bilancio regolare). Non è comunque chiaro, dalle spiegazioni ricevute, quanto abbia contribuito complessivamente l’Italia in tutti questi anni (per saperne di più sui rapporti antichi tra Fao ed Italia, potrete comunque vedere questo link.
Va detto inoltre che la Fao è solo una delle tre agenzie Onu basate a Roma che si dedicano alla lotta alla fame: le altre due sono il Programma Alimentare Mondiale (PAM) ed il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (IFAD). Mentre la Fao fornisce assistenza tecnica per la definizione ed esecuzione di strategie di riduzione della fame, il PAM è stato creato nel 1961 con il compito di distribuire cibo in situazioni di emergenza (guerre, disastri). Secondo i dati forniti dalla Fao, nel 2011, il bilancio totale del Pam era di 3 miliardi e 730 milioni di dollari (circa sette volte il bilancio annuale attuale della Fao), e tra il 2008 e il 2012 il Pam ha potuto anche contare su circa 500 milioni di dollari in doni privati. L’Ifad invece è stato creato nel 1977 come istituzione finanziaria dedicata al finanziamento dello sviluppo rurale. La Fao non ci ha fornito dettagli sul costo di questa istituzione.
La Fao non ha peraltro neppure precisato quali percentuali del proprio bilancio siano spese in stipendi e benefits del personale, quanto finisca in consulenze esterne, in conferenze, in viaggi e in altri costi di funzionamento, e quanto invece sia utilizzato per finanziare i programmi, e quanto costi la sede romana rispetto agli uffici nel campo. Comunque sia la Fao ci informa che a domanda dei paesi membri, essa è riuscita a ridurre i propri costi di 25,8 milioni di dollari (circa il 2,5% del bilancio del biennio in corso), con tagli effettuati in maggioranza presso i quartieri generali romani dell’organizzazione; e che con questi soldi ha creato 55 posti supplementari negli uffici decentralizzati.
Non ci è stato chiarito tuttavia se tali aggiustamenti siano il risultato di alcuni articoli della stampa italiana che denunciano i privilegi di cui godrebbe il personale della FAO, e che potete leggere qui, oppure se siano stati provocati dalla lettera aperta che, nel 2006, la vice Direttrice Generale stessa della FAO, l’olandese Louise Fresco, dimettendosi, inviava al Guardian per denunciare il malfunzionamento dell’istituzione, affermando, tra l’altro, che “la maniera in cui il bilancio è stato distribuito negli ultimi bienni mina la credibilità dell’Organizzazione e conferma così l’impressione degli Stati membri che la FAO è incapace di gestire le proprie priorità”, che ci sarebbe “una mancanza di trasparenza nella presa di decisioni” e che l’ex Direttore Generale avrebbe“stimolato una cultura di silenzio, pettegolezzi e persino paura”.
Ci auguriamo che la situazione da allora sia migliorata, anche se non abbiamo ottenuto spiegazioni quanto all’esistenza di meccanismi di controllo che veglino sull’uso regolare e trasparente dei fondi del bilancio, e benchè la FAO non abbia commentato nulla quanto alle critiche emesse ancora di recente, nel 2012, dall’ex Primo Ministro Australiano Kevin Rudd, che accusava la FAO di non avere fatto abbastanza in questi anni per la sicurezza alimentare, nemmeno dopo le crisi alimentari del 2006-2007, e sosteneva che, per evitare nuovi disastri, non sarebbe bastato pubblicare “un altro mucchio di rapporti”.
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Insetti da mangiare? Un’altra prova del fallimento della FAO
L'organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di cibo e agricoltura ne è certa: nel 2050 sulla Terra saremo 9 miliardi e per cibarci dovremo rivolgerci a coleotteri, bruchi e cavallette. Un'idea vincente per la sostenibilità o la testimonianza di un enorme spreco?
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una commissione di economisti guidata da Leif Christoffersen e voluta dalla stessa Onu ha accertato che, sempre nel 2009, quando la Sheeran lamentava la necessità di risorse, la Fao avrebbe avuto a disposizione 784 milioni di dollari fino al 2011 per affrontare il problema della fame nel mondo: peccato che solo 90 milioni sono stati iscritti a budget per programmi realmente tesi a risolvere la malnutrizione. Gli altri soldi? Tanto per fare un esempio, 200 milioni sono stati spesi solo per i meeting dei dipendenti dell’organizzazione. Non solo: le tre principali agenzie Onu (diverse dalla Fao) che si occupano di fame nel mondo costavano tre anni fa complessivamente 10 miliardi l’anno. Si tratta di soldi messi dagli Stati membri, e non sono proprio bruscolini. Il risultato più eclatante fino adesso di questo ingente investimento? Alimentare i ricchissimi stipendi dei funzionari delle organizzazioni. Mentre al resto del mondo toccherà cibarsi di cavallette.
di Gianluca Schinaia
www.puntarellarossa.it
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