16/05/2013
Sono nato settant’anni fa, in un ospedale gremito di soldati
feriti. Il mio era stato un parto lungo, difficile, faticoso che aveva
tenuto in ansia tutti e, a cose felicemente concluse, i miei genitori
offrirono un piccolo rinfresco. I soldati brindarono alla mia salute e
mi fecero un augurio speciale: quello di non dover mai vedere una
guerra. Negli ultimi decenni i rumori delle guerre si sono fatti sempre
più vicini ma
per la mia generazione l’augurio si è finora realizzato.
Della guerra noi settantenni non abbiamo quasi memoria, il dopoguerra è rimasto un ricordo nebuloso e semi conscio di stufe fumose in inverni freddi, di elettricità che manca improvvisamente, di macerie lungo le strade. Forse alla guerra e al primo dopoguerra dobbiamo una certa mancanza di ottimismo che ci differenzia da chi è nato anche pochi anni più tardi ed è figlio del miracolo economico. Questa carenza, però, è stata a lungo spazzata via dagli entusiasmi del miracolo economico.
Abbiamo respirato in famiglia, fin dalle elementari, il clima fiducioso della correlazione tra sforzi e risultati: accantonate le armi, si lavorava e si migliorava. La Vespa, brevettata nel 1946, è il simbolo di questa fiducia e anche della trasformazione, di biblica memoria, delle spade in aratri e delle lance in falci: deriva, infatti, dalla riconversione a usi pacifici degli stabilimenti e delle energie progettuali utilizzati per costruire un bombardiere Piaggio. Nei ricordi di quasi tutti noi settantenni c’è quello di un giro in Vespa, in piedi, protetti dalle braccia, poggiate sul manubrio, del papà o di uno zio.
La Vespa ci accompagnò alle elementari; ne uscimmo con la nascita della Fiat 600, la prima utilitaria del mondo, per andare alle medie inferiori (o all’Avviamento Professionale, una scuola che, pur socialmente discriminante, insegnava con efficacia una serie di mestieri che hanno permesso a molti buone carriere e buoni redditi). Il ciclomotore e l’utilitaria erano rivoluzionari per tutta l’Europa non solo da un punto di vista tecnico ma anche da un punto di vista sociale: permettevano a decine di milioni di famiglie di ogni parte d’Europa di muoversi come volevano, un privilegio prima dei soli ricchi. I treni - dove esisteva la terza classe - odoravano ancora di guerra, di tradotte, di percorsi forzati, l’auto e il ciclomotore sapevano di libertà.
Alle medie trovammo qualche insegnante che usava la modernissima Lettera 22, la macchina per scrivere portatile dell’Olivetti. E la Lettera 22 rappresentava un’altra forma di libertà: assieme alla penna biro, che si diffuse negli stessi anni, ci sottraeva dalla tirannia del pennino e del calamaio con i quali avevamo riempito innumerevoli quaderni, sporcandoci le dita d’inchiostro (che si puliva con la pietra pomice perché il sapone era troppo caro) e rendeva più immediato il processo pensiero-scrittura cambiando almeno un poco sia il modo di pensare sia quello di scrivere. E di qui, come dagli elettrodomestici, dai grandi stabilimenti tessili, meccanici e alimentari arrivavano i nuovi posti di lavoro, i nuovi redditi. Per ottenerli, milioni di italiani si spostarono dal Mezzogiorno al Triangolo Industriale contribuendo a nuove produzioni che creavano a loro volta nuovi redditi, nuova domanda, nuove migrazioni interne. Alla fine degli anni Cinquanta, quando una parte di noi andò alle scuole superiori e un’altra parte si trovò un lavoro (a quel tempo senza molta difficoltà) c’erano, sia pure in vario modo, opportunità per tutti. Milano era come l’America, non era proibito al figlio dell’immigrato di sognare e di raggiungere i vertici professionali, con lo studio e con il lavoro. Nella nostra storia non era mai stato così.
Sogni e progetti di vita si intrecciavano con nuovi consumi. Non lo sapevamo, ma quella in cui siamo stati giovani era forse una «vera» società dei consumi, dove i beni venivano ambiti, gustati, rispettati, apprezzati con una sensibilità merceologica oggi quasi perduta. Il consumatore medio sapeva distinguere al tatto le diverse qualità di lana e al gusto le infinite varietà di frutta e verdura. Oggi molto spesso si guarda al marchio e al cartellino in un consumo sovente banalizzato, in un acquisto sovente fatto per mantenere il proprio status sociale più che per un genuino amore del prodotto, residuo di società povere. Un decennio più tardi la società del consumo divenne società del consumismo.
Gli anni Sessanta non erano certo un paradiso, ma per moltissime famiglie italiane rappresentò l’uscita dall’inferno della povertà senza speranza. La guerra era ancora molto vicina e tutti i giorni i giornali ci ricordavano che ci poteva piovere in testa l’atomica. Della guerra, come di politica, si raccontava e si discuteva nelle lunghe sere dell’era pre-televisiva. Per questo, quando eravamo quindicenni-diciottenni la nostra sensibilità (e cultura) politica era nettamente superiore a quella attuale dei quindicenni-diciottenni di oggi. Ci distinguevamo istintivamente in «di sinistra» o «di destra», il fossato tra comunisti e democristiani era profondissimo nella vita di tutti i giorni Le sezioni dei partiti e gli oratori parrocchiali erano molto frequentati.
La televisione fu l’elemento dirompente che scardinò questo panorama culturale. Fino a metà anni Sessanta solo pochi l’avevano in casa: la si guardava soprattutto nei bar e nei cinema, che sospendevano gli spettacoli in occasione di partite calcistiche importanti, o anche solo di «Lascia o raddoppia?», mitico programma di quiz. Con la televisione, la Rai cominciò a creare l’italiano parlato (negli anni sessanta, quasi la metà delle famiglie si esprimeva in dialetto quanto meno in casa con i famigliari). La pubblicità entrò, all’ora di cena, anche nelle case di chi non comprava il giornale. Si concentrava in «Carosello», assai più gentile degli aggressivi spot pubblicitari di oggi: chi voleva proporre un suo prodotto doveva costruire una storia di due minuti e aveva a disposizione solo pochi secondi per presentare il marchio e il nome.
Siamo stati l’ultima generazione ad aver sostenuto l’esame di maturità con le vecchie regole, su un programma che, al liceo classico, comportava la conoscenza minuta di numerosi testi latini e greci, in poesia e in prosa. Alla fine degli anni Sessanta, quando avevamo 25-30 anni, eravamo quasi tutti «inseriti», che ci piacesse o no, parte di un processo produttivo e di un meccanismo di consumo («il sistema», come si diceva allora). Proprio grazie a questo inserimento fummo, in larga misura, estranei o sostenitori tiepidi delle barricate sessantottine: un diverso modo di percepire e di pensare ci separava nettamente dai nostri fratelli minori.
Precisamente nel Sessantotto, per noi, a differenza dei più giovani, la stabilità cominciava a far premio sulla crescita, la normalità sull’innovazione. Una canzoncina della mia gioventù diceva: «Lavoro in banca/ stipendio fisso/ così mi piazzo/ e non se ne parla più». Per questo, ancor più che il Sessantotto, ci scosse la crisi petrolifera: le domeniche senza auto e le città con l’illuminazione semispenta erano la fine di un’epoca. Cercammo affannosamente di riprendercela quando finì l’emergenza petrolifera ma il clima era cambiato: l’onda lunga e forte della crescita continuava a salire ma si era frantumata. Cominciammo a conoscere l’inflazione e la confusione, il personalismo nella politica, l’iperdivismo nel calcio e nello spettacolo, il proliferare delle stazioni televisive. Venivano a mancare obiettivi comuni e la certezza del lavoro cominciò a incrinarsi; il terrorismo cercò di sostituirsi a un’azione politica sempre meno efficace.
Quando raggiungemmo la mezza età la grande crescita dell’Italia era ormai finita. L’Italia uscì da molti settori produttivi, facendo progressi nel solo «made in Italy»; il «design» sostituì la ricerca, le campagne pubblicitarie attiravano più energie degli investimenti produttivi. I distretti industriali dei «padroncini» divennero molto popolari, i poli industriali della grande industria non furono più rispettati come fonti di ricchezza ma biasimati come fonti di inquinamento. Una cultura individualista, in cui ciascuno si gioca la propria vita con le proprie forze, si sostituì gradatamente (per fortuna non totalmente) alla cultura basata sul senso di appartenenza e sulla solidarietà. Guardammo con stupore, e un po’ di sgomento, i giovani degli anni Novanta cercare di costruire il proprio successo personale quasi con ferocia, all’ombra del motto «lavoro, guadagno, pago, pretendo»; guardammo con sgomento e un po’ di stupore il diffondersi a macchia d’olio della mafia.
L’Olivetti andò in crisi e poi chiuse. La Montedison divenne Edison lasciando perdere la chimica e concentrandosi sull’elettricità. L’Alitalia entrò nell’orbita di Air France. La Borsa fu privatizzata, divenne Borsa Italiana e fu acquistata dal London Stock Exchange. L’Italia cominciava a perdere lentamente terreno, la spesa per la cassa integrazione si sostituiva a quella per nuovi investimenti e il bilancio dello Stato si deteriorò sensibilmente. Il costo del lavoro aumentava, ma il potere d’acquisto dei salari in busta paga stagnava o diminuiva; i laureati migliori presero a cercare (e a trovare) lavoro all’estero. Il tutto in un clima tra il frivolo e lo spensierato, con la politica ridotta a teatrino.
Per questo il sussulto di crisi mondiale che ha colpito in maniera durissima l’Italia negli ultimi due anni ha trovato gli italiani largamente impreparati. Per i settantenni l’impressione è di essere gli ultimi di un mondo, che subito dopo di noi si sia operato uno stacco lacerante; siamo, in una certa misura, dei sopravvissuti. In un momento di crisi profonda, però, in quanto estremi portatori di valori che hanno contribuito al successo passato di questo Paese, anche i testimoni del passato servono. Forse questa generazione - ancora largamente in salute grazie ai progressi della medicina - può ancora dare qualcosa a un Paese stordito. Sempre sperando che l’augurio che fu fatto alla mia nascita continui a tenerci lontani dalle guerre.
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Vorrei rivolgermi ai 35/40 enni: è vero che abbiamo goduto di un
periodo di pace; è vero che “abbiamo respirato il clima fiducioso tra
sforzi e risultati”. È vero che lo Stato assumeva e siamo vissuti in un
periodo di pace sociale. Ma non ci si può addebitare la tremenda
crisi in cui ci dibattiamo tutti; essa viene da lontano, perpetrata da
logiche politiche al di fuori della nostra portata (calcoli elettorali,
soddisfacimento degli interessi dei rispettivi bacini elettorali,
miopia politica ed etica, spartizione del potere, ecc.).
E vorrei aggiungere che:
a) gli over 60 si stanno facendo carico dell’accudimento dei nipoti a tempo pieno ed è impegnativo da tutti i punti di vista, oltre che una grande gioia.
b) La nostra generazione è forse l’ultima che si è fatta carico dell’assistenza dei genitori anziani (cosa che non potremo certo aspettarci dai nostri figli, per le peggiorate condizioni di lavoro, per minore tempo libero, per le distanze geografiche, e forse anche per la minore capacità di sacrificio...)
c) la nostra generazione supporta economicamente i figli .
La nostra generazione è quella che attualmente regge il maggior carico fisico ed economico , trovandosi impegnata tra il fronte dei nipoti, quello dei figli e quello dei genitori non più autosufficienti.
Quindi , per favore, non sparate sugli over 60. Stiamo facendo di tutto per aiutare chi è venuto dopo di noi. Non ci buttate la croce addosso solo perché siamo vissuti in un periodo in cui si viveva meglio di oggi. Abbiamo lavorato, abbiamo dato e continuiamo a farlo. Non permettete che ci nutriamo di fatica e senso di colpa. Non ce lo meritiamo. C.L.N.
per la mia generazione l’augurio si è finora realizzato.
Della guerra noi settantenni non abbiamo quasi memoria, il dopoguerra è rimasto un ricordo nebuloso e semi conscio di stufe fumose in inverni freddi, di elettricità che manca improvvisamente, di macerie lungo le strade. Forse alla guerra e al primo dopoguerra dobbiamo una certa mancanza di ottimismo che ci differenzia da chi è nato anche pochi anni più tardi ed è figlio del miracolo economico. Questa carenza, però, è stata a lungo spazzata via dagli entusiasmi del miracolo economico.
Abbiamo respirato in famiglia, fin dalle elementari, il clima fiducioso della correlazione tra sforzi e risultati: accantonate le armi, si lavorava e si migliorava. La Vespa, brevettata nel 1946, è il simbolo di questa fiducia e anche della trasformazione, di biblica memoria, delle spade in aratri e delle lance in falci: deriva, infatti, dalla riconversione a usi pacifici degli stabilimenti e delle energie progettuali utilizzati per costruire un bombardiere Piaggio. Nei ricordi di quasi tutti noi settantenni c’è quello di un giro in Vespa, in piedi, protetti dalle braccia, poggiate sul manubrio, del papà o di uno zio.
La Vespa ci accompagnò alle elementari; ne uscimmo con la nascita della Fiat 600, la prima utilitaria del mondo, per andare alle medie inferiori (o all’Avviamento Professionale, una scuola che, pur socialmente discriminante, insegnava con efficacia una serie di mestieri che hanno permesso a molti buone carriere e buoni redditi). Il ciclomotore e l’utilitaria erano rivoluzionari per tutta l’Europa non solo da un punto di vista tecnico ma anche da un punto di vista sociale: permettevano a decine di milioni di famiglie di ogni parte d’Europa di muoversi come volevano, un privilegio prima dei soli ricchi. I treni - dove esisteva la terza classe - odoravano ancora di guerra, di tradotte, di percorsi forzati, l’auto e il ciclomotore sapevano di libertà.
Alle medie trovammo qualche insegnante che usava la modernissima Lettera 22, la macchina per scrivere portatile dell’Olivetti. E la Lettera 22 rappresentava un’altra forma di libertà: assieme alla penna biro, che si diffuse negli stessi anni, ci sottraeva dalla tirannia del pennino e del calamaio con i quali avevamo riempito innumerevoli quaderni, sporcandoci le dita d’inchiostro (che si puliva con la pietra pomice perché il sapone era troppo caro) e rendeva più immediato il processo pensiero-scrittura cambiando almeno un poco sia il modo di pensare sia quello di scrivere. E di qui, come dagli elettrodomestici, dai grandi stabilimenti tessili, meccanici e alimentari arrivavano i nuovi posti di lavoro, i nuovi redditi. Per ottenerli, milioni di italiani si spostarono dal Mezzogiorno al Triangolo Industriale contribuendo a nuove produzioni che creavano a loro volta nuovi redditi, nuova domanda, nuove migrazioni interne. Alla fine degli anni Cinquanta, quando una parte di noi andò alle scuole superiori e un’altra parte si trovò un lavoro (a quel tempo senza molta difficoltà) c’erano, sia pure in vario modo, opportunità per tutti. Milano era come l’America, non era proibito al figlio dell’immigrato di sognare e di raggiungere i vertici professionali, con lo studio e con il lavoro. Nella nostra storia non era mai stato così.
Sogni e progetti di vita si intrecciavano con nuovi consumi. Non lo sapevamo, ma quella in cui siamo stati giovani era forse una «vera» società dei consumi, dove i beni venivano ambiti, gustati, rispettati, apprezzati con una sensibilità merceologica oggi quasi perduta. Il consumatore medio sapeva distinguere al tatto le diverse qualità di lana e al gusto le infinite varietà di frutta e verdura. Oggi molto spesso si guarda al marchio e al cartellino in un consumo sovente banalizzato, in un acquisto sovente fatto per mantenere il proprio status sociale più che per un genuino amore del prodotto, residuo di società povere. Un decennio più tardi la società del consumo divenne società del consumismo.
Gli anni Sessanta non erano certo un paradiso, ma per moltissime famiglie italiane rappresentò l’uscita dall’inferno della povertà senza speranza. La guerra era ancora molto vicina e tutti i giorni i giornali ci ricordavano che ci poteva piovere in testa l’atomica. Della guerra, come di politica, si raccontava e si discuteva nelle lunghe sere dell’era pre-televisiva. Per questo, quando eravamo quindicenni-diciottenni la nostra sensibilità (e cultura) politica era nettamente superiore a quella attuale dei quindicenni-diciottenni di oggi. Ci distinguevamo istintivamente in «di sinistra» o «di destra», il fossato tra comunisti e democristiani era profondissimo nella vita di tutti i giorni Le sezioni dei partiti e gli oratori parrocchiali erano molto frequentati.
La televisione fu l’elemento dirompente che scardinò questo panorama culturale. Fino a metà anni Sessanta solo pochi l’avevano in casa: la si guardava soprattutto nei bar e nei cinema, che sospendevano gli spettacoli in occasione di partite calcistiche importanti, o anche solo di «Lascia o raddoppia?», mitico programma di quiz. Con la televisione, la Rai cominciò a creare l’italiano parlato (negli anni sessanta, quasi la metà delle famiglie si esprimeva in dialetto quanto meno in casa con i famigliari). La pubblicità entrò, all’ora di cena, anche nelle case di chi non comprava il giornale. Si concentrava in «Carosello», assai più gentile degli aggressivi spot pubblicitari di oggi: chi voleva proporre un suo prodotto doveva costruire una storia di due minuti e aveva a disposizione solo pochi secondi per presentare il marchio e il nome.
Siamo stati l’ultima generazione ad aver sostenuto l’esame di maturità con le vecchie regole, su un programma che, al liceo classico, comportava la conoscenza minuta di numerosi testi latini e greci, in poesia e in prosa. Alla fine degli anni Sessanta, quando avevamo 25-30 anni, eravamo quasi tutti «inseriti», che ci piacesse o no, parte di un processo produttivo e di un meccanismo di consumo («il sistema», come si diceva allora). Proprio grazie a questo inserimento fummo, in larga misura, estranei o sostenitori tiepidi delle barricate sessantottine: un diverso modo di percepire e di pensare ci separava nettamente dai nostri fratelli minori.
Precisamente nel Sessantotto, per noi, a differenza dei più giovani, la stabilità cominciava a far premio sulla crescita, la normalità sull’innovazione. Una canzoncina della mia gioventù diceva: «Lavoro in banca/ stipendio fisso/ così mi piazzo/ e non se ne parla più». Per questo, ancor più che il Sessantotto, ci scosse la crisi petrolifera: le domeniche senza auto e le città con l’illuminazione semispenta erano la fine di un’epoca. Cercammo affannosamente di riprendercela quando finì l’emergenza petrolifera ma il clima era cambiato: l’onda lunga e forte della crescita continuava a salire ma si era frantumata. Cominciammo a conoscere l’inflazione e la confusione, il personalismo nella politica, l’iperdivismo nel calcio e nello spettacolo, il proliferare delle stazioni televisive. Venivano a mancare obiettivi comuni e la certezza del lavoro cominciò a incrinarsi; il terrorismo cercò di sostituirsi a un’azione politica sempre meno efficace.
Quando raggiungemmo la mezza età la grande crescita dell’Italia era ormai finita. L’Italia uscì da molti settori produttivi, facendo progressi nel solo «made in Italy»; il «design» sostituì la ricerca, le campagne pubblicitarie attiravano più energie degli investimenti produttivi. I distretti industriali dei «padroncini» divennero molto popolari, i poli industriali della grande industria non furono più rispettati come fonti di ricchezza ma biasimati come fonti di inquinamento. Una cultura individualista, in cui ciascuno si gioca la propria vita con le proprie forze, si sostituì gradatamente (per fortuna non totalmente) alla cultura basata sul senso di appartenenza e sulla solidarietà. Guardammo con stupore, e un po’ di sgomento, i giovani degli anni Novanta cercare di costruire il proprio successo personale quasi con ferocia, all’ombra del motto «lavoro, guadagno, pago, pretendo»; guardammo con sgomento e un po’ di stupore il diffondersi a macchia d’olio della mafia.
L’Olivetti andò in crisi e poi chiuse. La Montedison divenne Edison lasciando perdere la chimica e concentrandosi sull’elettricità. L’Alitalia entrò nell’orbita di Air France. La Borsa fu privatizzata, divenne Borsa Italiana e fu acquistata dal London Stock Exchange. L’Italia cominciava a perdere lentamente terreno, la spesa per la cassa integrazione si sostituiva a quella per nuovi investimenti e il bilancio dello Stato si deteriorò sensibilmente. Il costo del lavoro aumentava, ma il potere d’acquisto dei salari in busta paga stagnava o diminuiva; i laureati migliori presero a cercare (e a trovare) lavoro all’estero. Il tutto in un clima tra il frivolo e lo spensierato, con la politica ridotta a teatrino.
Per questo il sussulto di crisi mondiale che ha colpito in maniera durissima l’Italia negli ultimi due anni ha trovato gli italiani largamente impreparati. Per i settantenni l’impressione è di essere gli ultimi di un mondo, che subito dopo di noi si sia operato uno stacco lacerante; siamo, in una certa misura, dei sopravvissuti. In un momento di crisi profonda, però, in quanto estremi portatori di valori che hanno contribuito al successo passato di questo Paese, anche i testimoni del passato servono. Forse questa generazione - ancora largamente in salute grazie ai progressi della medicina - può ancora dare qualcosa a un Paese stordito. Sempre sperando che l’augurio che fu fatto alla mia nascita continui a tenerci lontani dalle guerre.
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Scritto da
rosario nicoletti
il
17/05/2013
ore
12:55
Egregio Professor Deaglio, mi permetta di aggiungere qualcosa al Suo
godibilissimo articolo. Lei non parla della sistematica distruzione
della scuola e dell'università, iniziata nei primi anni '60, o forse
prima. Io sono convinto - forse sbagliando - che il declino nel quale
noi oggi ci troviamo sia in gran parte il prodotto di una ignoranza
pandemica, che si intreccia con la mancanza dei meccanismi di selezione
meritocratica. Arrivati ad un relativo benessere negli anni '60 e '70 si
è creduto di poter sostituire i "doveri" ai "diritti"; inoltre, che
fosse sufficiente dividere la ricchezza esistente per vivere nel paese
di bengodi. Così, tutti avevano diritto al titolo di studio, e, nel
credo comune, sarebbe stato sufficiente far finta di lavorare. A
distanza di molti decenni, giunto a maturazione quanto si era seminato,
viviamo in un Paese nel quale più nulla funziona correttamente, ed
abbiamo una classe dirigente, alla quale si farebbe un complimento
tacciandola di inettitudine. Ed è perfettamente logico che le poche
persone capaci, istruite e motivate sono costrette a fuggire
dall'Italia. Ho ottanta anni compiuti, ed il futuro mi interessa poco.
Ma se proprio si volesse agire per ricostruire il Paese, bisognerebbe
partire dalla scuola e dalla Giustizia, istituzioni ormai in coma
profondo.
---------------------------------
Scritto da
antonio
il
19/05/2013
ore
12:34
Ho letto con commozione l'articolo che mi trova in sintonia su quasi
tutto.Anche io ho passato tante serate davanti al braciere di mia nonna
ad ascoltare gli anziani parlare della terra,della guerra appena
passata,delle morti in famiglia,degli americani etc
Vengo dal Sud,da una cultura contadina,semplice ed eroica nello stesso tempo.Mi ricordo la Vespa,la 500(ho 64 anni,sono più giovane)la TV
la "Dolce vita" film che mi ha "aperto" ad un mondo diverso.Tuttavia,
sarà per gli anni in meno,il periodo della "contestazione"l'ho vissuto
diversamente.Ero in piena euforia all'epoca,le aspettative erano a portata di mano,la fantasia al potere,i figli dei fiori.....ma il
vietnam e gli anni di piombo hanno poco a poco distrutto quasi tutto.
Nel suo articolo però mi sembrano un passaggio di epoca trascorso troppo veloce e che non impatta troppo sulle coscienze,sulle idee.
Il '68 è stato un periodo fondamentale per la mia generazione,ci ha
"aperto" al mondo,passando dalla provincia a San Francisco.Detto ciò
dico anche che quando la "nostra" generazione non ci sarà più la Storia cambierà totalmente (in meglio o in peggio nessuno può dirlo)
ci sarà una perdita di "memoria" notevole,fondamentale,robusta e si
passerà ad una storia più "effimera" di cui non avrò nostalgia.
Saluti/e
Vengo dal Sud,da una cultura contadina,semplice ed eroica nello stesso tempo.Mi ricordo la Vespa,la 500(ho 64 anni,sono più giovane)la TV
la "Dolce vita" film che mi ha "aperto" ad un mondo diverso.Tuttavia,
sarà per gli anni in meno,il periodo della "contestazione"l'ho vissuto
diversamente.Ero in piena euforia all'epoca,le aspettative erano a portata di mano,la fantasia al potere,i figli dei fiori.....ma il
vietnam e gli anni di piombo hanno poco a poco distrutto quasi tutto.
Nel suo articolo però mi sembrano un passaggio di epoca trascorso troppo veloce e che non impatta troppo sulle coscienze,sulle idee.
Il '68 è stato un periodo fondamentale per la mia generazione,ci ha
"aperto" al mondo,passando dalla provincia a San Francisco.Detto ciò
dico anche che quando la "nostra" generazione non ci sarà più la Storia cambierà totalmente (in meglio o in peggio nessuno può dirlo)
ci sarà una perdita di "memoria" notevole,fondamentale,robusta e si
passerà ad una storia più "effimera" di cui non avrò nostalgia.
Saluti/e
Scritto da
Melchiorre Gerbino
il
19/05/2013
ore
12:32
La mia generazione (sono nato nel 1939) era geneticamente programmata
per combattere la terza guerra mondiale ma, poichè la seconda era
finita a bombe atomiche e la terza non si poteva cambattere perchè
l'umanità si sarebbe estinta, quelli della mia generazione innescammo
rivolte non-violente, nelle aree del mondo più avanzate, (come "La
Contestazione" in Italia e in Francia), rivolte non-violente che furono i
prodromi dei processi di "globalizzazione" ora in corso... Una
generazione molto particolare, dunque, che non trova parallelismi con le
precedenti, ma cui per forza di cose si dovranno ispirare le
susseguenti, per scrollarsi di dosso quanti taglieggiano e deturpano il
mondo.
Melchiorre Gerbino
direttore di "Mondo Beat"
Melchiorre Gerbino
direttore di "Mondo Beat"
Scritto da
Leonida
il
19/05/2013
ore
11:07
Sono nato molto prima e mi sono goduto anche alcuni anni di guerra,ho
la impressione che i giovani di oggi soffrano più per il mancato
benessere offerto loro dai benestanti genitori che per le difficoltà che
la situazione presenta nel mondo del lavoro. Il lavoro si cerca dove
c'è è non lo si aspetta a casa. La crisi di tutto l'occidente e' da noi
più grave perché i governi degli ultimi 30 anni hanno sempre detto di si
ad ogni richiesta,pagando con debiti,e per farsi rieleggere. Hanno
completamente dimenticato ogni genere di riforma ignorando che il mondo
stava cambiando. Ma chi ha eletto questi governanti .....gli italiani.
Nel 1995 la Germania era la malata di Europa ,con alcune drastiche
riforme ha capovolto la situazione. Noi produciamo laureati inutili,a
volte anche incompetenti e dimentichiamo che la società ha bisogno di
idraulici ,falegnami e artigiani di ogni genere. Ci sono disoccupati tra
gli idraulici???!!!
Scritto da
Giancarlo
il
18/05/2013
ore
16:37
Il settantenne di oggi ha partecipato molto attivamente e con
contributi significativi a far crescere l'Italia , ma lo ha fatto
scaricando gli oneri dell'indebitamento sulle generazioni future.Non
assolverei quella generazione.Penso inoltre che la distribuzione delle
responsabilità non possa confinasti in un ambito generazionale perché
esso va considerato in relazione alle diversità sociologiche di tipo
geografico.Il settantenne nel meridione non ha vissuto i paradigmi
societari del settantenne settentrionale nelle aree settentrionali.
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Scritto da
sicula
il
16/05/2013
ore
17:51
E vorrei aggiungere che:
a) gli over 60 si stanno facendo carico dell’accudimento dei nipoti a tempo pieno ed è impegnativo da tutti i punti di vista, oltre che una grande gioia.
b) La nostra generazione è forse l’ultima che si è fatta carico dell’assistenza dei genitori anziani (cosa che non potremo certo aspettarci dai nostri figli, per le peggiorate condizioni di lavoro, per minore tempo libero, per le distanze geografiche, e forse anche per la minore capacità di sacrificio...)
c) la nostra generazione supporta economicamente i figli .
La nostra generazione è quella che attualmente regge il maggior carico fisico ed economico , trovandosi impegnata tra il fronte dei nipoti, quello dei figli e quello dei genitori non più autosufficienti.
Quindi , per favore, non sparate sugli over 60. Stiamo facendo di tutto per aiutare chi è venuto dopo di noi. Non ci buttate la croce addosso solo perché siamo vissuti in un periodo in cui si viveva meglio di oggi. Abbiamo lavorato, abbiamo dato e continuiamo a farlo. Non permettete che ci nutriamo di fatica e senso di colpa. Non ce lo meritiamo. C.L.N.
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Scritto da
CAMPIA ROBERTO
il
16/05/2013
ore
16:10
Anche se ne comprendo le ragioni, non mi piace pensare a questa nostra societa' come lotta fra generazioni.
I piu' anziani hanno sofferto e lavorato, e ottenuto tutele che ora paiono privilegi agli occhi dei piu' giovani che si trovano a combattere in uno scenario di recessione.
Ma se dobbiamo uscire dallo stallo, e io continuo ad augurarmelo, credo che dovra' perfezionarsi una sorta di collaborazione tra le persone di diversa eta', ognuno lasciando qualcosa sul campo ma tutti potendo offrire le qualita' di cui disponiamo.
Credo fermamente che il nostro paese abbia le risorse umane e materiali per ripartire; mi urta sentire che si puo' solo piu' emigrare e che la partita ( e il lavoro, e le opportunita',...) e' solo piu' scontro tra vecchi e giovani.
Io personalmente conosco (ma credo tutti) persone validissime sia anziane che giovani, cosi' come vedo purtroppo giovani che non vogliono crescere e adulti mai cresciuti.
Mi sforzo piuttosto di dividere la societa' tra persone di buona volonta' a cui posso rivolgermi con fiducia, e persone egoiste e presuntuose, che cerco di evitare.
I piu' anziani hanno sofferto e lavorato, e ottenuto tutele che ora paiono privilegi agli occhi dei piu' giovani che si trovano a combattere in uno scenario di recessione.
Ma se dobbiamo uscire dallo stallo, e io continuo ad augurarmelo, credo che dovra' perfezionarsi una sorta di collaborazione tra le persone di diversa eta', ognuno lasciando qualcosa sul campo ma tutti potendo offrire le qualita' di cui disponiamo.
Credo fermamente che il nostro paese abbia le risorse umane e materiali per ripartire; mi urta sentire che si puo' solo piu' emigrare e che la partita ( e il lavoro, e le opportunita',...) e' solo piu' scontro tra vecchi e giovani.
Io personalmente conosco (ma credo tutti) persone validissime sia anziane che giovani, cosi' come vedo purtroppo giovani che non vogliono crescere e adulti mai cresciuti.
Mi sforzo piuttosto di dividere la societa' tra persone di buona volonta' a cui posso rivolgermi con fiducia, e persone egoiste e presuntuose, che cerco di evitare.
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